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MEMORANDUM (FOTOGRAFIE, FRAME, FILE)
a cura di Rinaldo Censi

Osservato con attenzione, il supplizio di Robert-François Damiens, la cui esecuzione avvenne per squartamento, somiglia, pur nella sua insostenibile efferatezza, alla trama bislacca di una comica slapstick. Domestico, ex militare, accusato di tentato regicidio ai danni di Luigi XV, Damiens viene condannato il 22 marzo 1757 «a fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», ricorda Michel Foucault nelle prime pagine memorabili del suo Sorvegliare e punire, citando gli atti del processo. Armato di coltellino (la lama raggiunge a fatica gli otto centimetri), Damiens ferisce il Re a un fianco. Lo vuole solo spaventare? Diabolico mostro, fugge. Poi si lascia catturare dalla guardia reale. Luigi XV caldeggia il perdono, ma il parlamento, inflessibile, ai limiti dello zelo, non ha pietà. Sarà l’ultimo criminale condannato a morte per squartamento. Nei Pièces originales et procédure du procès fait à Robert-François Damiens, viene riassunta passo per passo l’esecuzione: «Condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grève, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento».

Questi i propositi ideali. Quel che accadde, in realtà, diverge dalle intenzioni del parlamento. «Alla fine venne squartato. Quest’ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando ancora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con le scure… […] Gli spettatori furono tutti edificati dalla sollecitudine del curato di San Paolo che, malgrado la sua tarda età, non lasciava un momento di consolare il paziente» riporta la “Gazzetta di Amsterdam”, sempre citata da Foucault.

Questo supplizio possiede le dimensioni di un vero e proprio evento spettacolare. La relazione che Foucault riporta, appoggiandosi alla testimonianza del sottufficiale di cavalleria Bouton (contenuta nel testo di Anne-Léo Zévaès intitolato Damiens le régicide (1933)) si presenta come una successione di sequenze. Inquadrature, la cui cornice è forse la Storia. Lo spettacolo, come dicevamo, è orribile. Ma un orrore reso quasi comico dall’inettitudine dei giustizieri, i quali, simili a Stanlio e Ollio, trasformano il supplizio in una sorta di gigantesco “gag” rallentato. Una sequenza slowburn: «Venne acceso lo zolfo, ma il fuoco era debole, che la pelle, dal disopra delle mani solamente, non fu che assai poco danneggiata. Poi, un aiutante del boia, le maniche rimboccate fino al di sopra del gomito, prese delle tenaglie di acciaio fatte apposta, di circa un piede e mezzo di lunghezza, lo tanagliò. (…) Questo aiutante, benché forte e robusto, fece molta fatica a strappare i pezzi di carne, che prendeva con le sue tenaglie due o tre volte nello stesso posto, torcendo, e quello che egli toglieva formava ogni volta una piaga della grandezza di uno scudo da sei lire». Le grida e le sofferenze devono essere state raccapriccianti. Damiens alza la testa, si osserva. Il tanagliatore getta liquido bollente sulle piaghe. Damiens chiede perdono a Dio. Le tenaglie sono posizionate, i cavalli pronti. Ma lo spettacolo è solo all’inizio. L’incompetenza è totale. «I cavalli diedero uno strappo, tirando ciascuno una delle membra per diritto, ogni cavallo tenuto da un aiutante. Dopo un quarto d’ora, stessa cerimonia, e infine dopo numerosi tentativi si fu obbligati a far tirare i cavalli: ossia quelli del braccio destro verso la testa, quelli delle cosce girando indietro dalla parte delle braccia, il che gli ruppe le braccia alle giunture. Questi tiramenti furono ripetuti diverse volte senza riuscita. Egli alzava la testa e si guardava. Si fu obbligati a mettere altri due cavalli, davanti a quelli attaccati alle cosce, il che faceva sei cavalli. Nessuna riuscita».

Ridotto a un manichino nelle mani di un branco di tonti capitanati dal boia, Damiens, assistito dal curato, assiste alla sua fine, perennemente differita. I cavalli sbandano, cadono sul selciato. I giustizieri confabulano mentre lui spasima. Che fare? Tagliarlo a pezzi per agevolare il lavoro di questi cavalli colpiti da pigrizia cronica? «Dopo due o tre tentativi, il boia Samson e quello che l’aveva tanagliato tirarono ciascuno un coltello dalla tasca e tagliarono le cosce dal tronco del corpo; i quattro cavalli essendo al tiro, portarono via le due cosce, ossia: quella del lato destro per la prima, poi l’altra; in seguito si fece lo stesso alle braccia e alle spalle e alle ascelle e alle quattro parti; bisognò tagliare le carni fino quasi all’osso; i cavalli tirando a tutta forza staccarono il braccio destro per primo e poi l’altro». E poi: «Staccate queste quattro parti, i confessori scesero per parlargli, ma l’aiutante del boia disse che era morto, ma la verità è che io vedevo l’uomo agitarsi e la mascella inferiore andare avanti e indietro come se parlasse. Uno degli aiutanti disse perfino poco dopo che, quando avevano preso il corpo per gettarlo sul rogo, era ancora vivo. Le quattro membra staccate dai cordami dei cavalli sono state gettate su un rogo preparato dentro la cinta in linea dritta col patibolo, poi il tronco e tutto sono stati ricoperti in seguito di ceppi e di fascine e il fuoco messo alla paglia mescolata a questo legno».
Tutto è stato ridotto in cenere. Un’operazione lunga, infinita, durata ore, a cui Bouton assiste insieme al figlio. Un cane, il giorno dopo, si corica sul prato dove era avvenuto il rogo. Cacciato a più riprese, tendeva a farvi ritorno. Non è difficile capire, osserva Bouton, che l’animale trovava quel posto più caldo che altrove.

Bouton non è ovviamente l’unico spettatore della scena. Le classi agiate, ad esempio, possono accaparrarsi i posti migliori e assistere allo squartamento. E viene in mente la vicenda di Casanova, raccontata nel secondo volume della sua Storia della mia vita – il quale affitta per tre luigi una finestra «proprio davanti alla parte anteriore del palco». Vi ospita tre dame: madame Angélique Lambertini, mademoiselle Thérèse de la Meure e sua zia, Madame XXX, tutte «incuriosite da quell’orrendo spettacolo». Accompagna le dame un altro personaggio, il conte Eduardo Tiretta. La scena vale la pena riportarla: «Il 28 marzo, giorno del martirio di Damiano, sono andato a prendere le dame in tempo utile; e poiché la carrozza ci avrebbe a malapena accolti tutti, non fu mossa alcuna obiezione al fatto che prendessi la mia dolce metà sulle ginocchia, e in quest’ordine arrivammo a Place de Grève. Le tre signore serrandosi il più possibile si piazzarono come meglio potevano alla finestra, sporgendosi in avanti sui gomiti, in modo da permetterci di vedere da dietro».
Il gruppo osserva l’esecuzione per quattro ore: «Mentre la vittima dei gesuiti veniva giustiziata, più volte fui costretto a voltare le spalle e a tapparmi le orecchie quando udii le sue urla laceranti – scrive Casanova, essendogli stata strappata metà del suo corpo; ma la Lambertini e la zia grassa non si mossero di un centimetro; forse a causa della crudeltà del loro cuore?». Nondimeno, un’altra scena ha luogo durante il supplizio. «Il fatto è che Tiretta tenne curiosamente impegnata la pia zia per l’intero tempo del supplizio; e questo, forse, fu ciò che impedì alla virtuosa signora di muoversi o addirittura voltare la testa. Trovandosi dietro di lei, aveva preso la precauzione di sollevarle il vestito per evitare di calpestarlo; questo, senza dubbio, era secondo la regola, ma subito dopo, dando uno sguardo involontario nella loro direzione, mi accorsi che Tiretta aveva portato le sue precauzioni piuttosto lontano e, non volendo interrompere il mio amico o far sentire a disagio la signora, girai la testa e mi piazzai con nonchalance in modo tale che la mia dolce amica non si accorgesse di nulla; questo mise la brava signora a proprio agio. Per due ore sentii un fruscio continuo».

Che cosa vede Casanova del supplizio di Damiens? Quasi nulla. Impressionato dalle grida, toglie lo sguardo (non è ciò che facciamo pure noi davanti a un horror?). La sua vista poi è murata. Gli resta giusto nelle orecchie il fruscìo insistito di abiti femminili, mentre fuori campo la folla osserva un uomo che sta per essere smembrato. In un suo saggio intitolato “Benjamin dans Casanova” (vedi L’espèce de chose mélanconie, Flammarion, 1978, pp. 209-218) Jean Louis Schefer commenta questa scena incorniciata nella Storia. «Questo testo – scrive – resta une delle grandi sceneggiature della nostra cultura. Mi spiega ciò che accade esattamente al cinema: nulla. Ossia nulla più che l’illusione di mostrare». Alcune pagine prima, aveva dichiarato a proposito del cinema: «So almeno che il film ben fatto, mal fatto ha cessato di rinviarmi a una distanza critica. Fascio di polvere sopra la testa, assisto al reale; come Casanova alla Storia, facendo altro (ciò che vedo non è né un teatro, né un’opera: la loro enorme differenza reciproca). Ciò che vedo è il reale del corpo lì seduto, senza frange né bordi. Una gigantesca macchina che conduce a questo preciso mattatoio di riflessi. Credo che non si vada al cinema per il senso ma per avvicinare il più possibile l’allucinazione più riuscita, la meglio allucinante, la cosa più gigantesca: il mattatoio intero che guarda».

Il reale del cinema sarebbe la sala? Lo spazio in cui un uomo comune assiste a una proiezione di immagini che sfilano, magari distratto, pensando ad altro (al fruscio che proviene da una coppia seduta dietro di lui)? E poi, come definire una cornice al cinema? Come inquadrarla? Sono i tendaggi che separano la struttura architettonica dallo schermo (una sorta di parergon), a indicarla, segnandone il limite? Ma siamo in una sala buia, e quel tendaggio, che funge da sipario, quasi non lo vediamo, a differenza di una cornice dorata, magari di epoca barocca (è anche vero che l’arte, soprattutto quella contemporanea, ha messo in discussione la cornice; rimandiamo al notevole saggio di Jean-Claude Lebensztejn, “À partir du cadre (vignettes)”, in Annexes – de l’oeuvre d’art, Ed. La part de l’Oeil, 1999, pp. 181-223).
Se la cornice del quadro funge da zona di disorientamento dello spazio, non così funziona al cinema. Vale la pena di riprendere la distinzione baziniana tra cornice e mascherino, contenuta nel suo famoso saggio intitolato Pittura e cinema: «I limiti dello schermo non sono, come il vocabolario tecnico lascerebbe a volte intendere, la cornice dell’immagine, ma una maschera che non può che celare una parte del reale. La cornice polarizza lo spazio verso l’interno, tutto ciò che lo schermo ci mostra si suppone al contrario prolungarsi indefinitamente nell’universo. La cornice è centripeta, lo schermo centrifugo». Potremmo dire: è la sala stessa, la sua struttura architettonica a fungere da cornice rispetto allo schermo? Di certo, serve un “quadro”, serve inquadrare. Serve almeno una finestra. Un mascherino. Ma il mascherino non è una cornice. Semplicemente, serve a fare “quadro”. In termini psicoanalitici, ricorda J.-B. Pontalis, nel suo saggio intitolato Finestre, il quadro sarebbe dunque «La condizione sicuramente necessaria affinché la realtà psichica possa prendere il posto che le spetta, affinché l’analisi possa imprimere movimento al pensiero, alla memoria, alla parola. Il pittore necessita dei limiti di una tela affinché l’illimitato di un paesaggio appaia, affinché una lampada non sia solo un oggetto, ma una fonte infinita di luce; serve una ribalta teatrale affinché una scena sia pure un’altra scena; l’arte della fotografia riposa in buona parte sulla qualità dell’inquadratura».
Anche un film sfugge da tutte le parti (nell’universo, scrive Bazin). Non ha bordi, pur strutturandosi a partire da un’inquadratura. E può capitare che, come Casanova alla fine di quella sequenza efferata della Storia, assai cinematografica, raccontata da alcuni testimoni, a fare “quadro” non resti altro che un distinto fruscio di tessuti. In modo simile, può darsi che di un film resti solo un perverso concatenamento di dettagli e ingrandimenti. Un mascherino inquadra una parte di reale, afferma André Bazin. Ma ciò che resta, ciò che lo spettatore assorbe, non è altro che il secondo montaggio che egli stesso produce, ciò che la sua memoria trattiene, il suo vissuto mentre le immagini scorrono.
Facciamo nostra qui una sollecitazione di Jean Louis Schefer: il reale al cinema non è il referente dell’immagine. Il polo di costituzione del reale al cinema è lo spettatore nella sala buia. Lo schermo potrà anche somigliare a una finestra aperta sul mondo, ma il reale sarà costituito dal piacere di ognuno di quegli spettatori: il mattatoio che guarda. Ognuno di loro fa esperienza, e insieme trattiene qualcosa dell’immagine: la sua durata, ma pure una sorta di rilievo, un’immagine netta, che finisce per sembrare “incorniciata”, destinata a perturbare la sua memoria, oltre la continuità della proiezione: «E forse il film è anche questo, nella misura in cui ne possiamo parlare in termini di immagini: è una tale immagine, serie di immagini che non hanno un fuori (è forse l’inizio del film che assicura la posizione collegata dello spettatore e rovescia i bordi dell’immagine nella suggestione di una continuità o di una scansione adeguata?)».

C’è allora bisogno di una finestra (magari affacciata su Place de Grève), c’è forse bisogno di inquadrare per isolare un momento di piacere (o di orrore)? È ciò che mettono in risalto i tre film scelti per questo programma. Tre film che possono essere visti però in una cornice differente: quella del sito ubu.com. Non quella di una sala cinematografica e neppure quella della Storia. Quella del vostro computer. Nel primo, (nostalgia) (Hollis Frampton, 1971), alcune fotografie bruciano su un fornello elettrico, mentre qualcuno tenta di strapparle dall’oblio raccontando la loro storia. Però ne falsa la sequenza. Il ricordo non è infatti legato alla foto che sta bruciando, ma a quella che seguirà. Potremmo dire: in (nostalgia) l’inquadratura crea un doppio margine, quello dello schermo e quello dei bordi di una fotografia che sta sparendo dalla nostra vista, mentre una voce vorrebbe trattenerla inquadrarne il contenuto verbalmente, ma sbaglia sequenza, creando un cortocircuito visivo e sonoro.

Nel secondo, il più paradigmatico, Frame (Richard Serra, 1969), qualcuno traffica intorno a una parete bianca. Vediamo solo le mani sul bordo dell’inquadratura, munite di righello. Vorrebbero misurare i suoi bordi. Sentiamo le voci prendere le misure, centimetro per centimetro. Ma quella non è una parete, è una sagoma bianca posata davanti a una finestra. Quando viene levata, le stesse mani prendono la misura della cornice che la circoscrive, segnalando con zelo le dimensioni. Ciò che vediamo è una strada di New York, la vista segnata dai palazzi, compresa la strada i pedoni e le auto che la percorrono. La sagoma bianca viene rimessa. Un film dell’inquadratura della finestra viene proiettato sopra la sua superficie (dunque vediamo il film di un film). Le misure vengono riprese. Ma le dimensioni non corrispondono. Il perimetro della cornice della finestra ora è più piccolo. Dunque? Qualcosa non torna tra la realtà della finestra e la sua riproduzione filmata?

Nel terzo, City Slivers (Gordon Matta-Clark, 1976), due mascherini verticali neri (matte) sono posti davanti alle lenti anamorfiche dell’obiettivo limitando la vista delle strutture architettoniche di New York. Per tutto il film questo espediente declina la visuale, ostruisce la vista, isola dettagli, agisce pure più in profondità, esibendosi come “trucco” cinematografico, creando un effetto di “mascherino-contro mascherino”, unendo due sequenze diverse in un’unica inquadratura: un effetto split-screen. Alla fine, i due matte si chiuderanno sull’inquadratura come fossero una sorta di sipario.

Tutti e tre i film sembrano interessati a testare i limiti dell’inquadratura, perturbandola, sezionandola, misurandola. Ma il quadro che ne esce risulta alterato anche per un altro motivo. Ciò che vediamo su ubu.com non sono i film, ma la loro “citazione testuale”, una sorta di “memorandum” del film stesso. Lo spiega lo stesso Kenneth Goldsmith, in un passo del suo Duchamp is my Lawyer. The Polemics, Pragmatics, and Poetics of UbuWeb (Columbia University Press, 2020). Nel capitolo dedicato a cinema d’avanguardia e internet, egli riflette sul suo archivio digitale e riporta una riflessione di Andrew Lamper, archivista presso l’Anthology Film Archive di New York: «In termini di qualità, i film di UbuWeb sono davvero un disastro, ma Lampert dice che sono queste imprecisioni che impediscono a UbuWeb di essere scambiato per un vero e proprio servizio di distribuzione di film: “Se vuoi vedere il vero film, vai all’Anthology, o al MoMa o al Pompidou, ma non aspettarti la verità dalle versioni online, aspettati approssimazioni o remix”». I film che potete vedere dentro la cornice di ubu.com sono il promemoria del vero film.
Un’osservazione di Michele Canosa chiarisce bene questo passaggio (vedi “L’arte di editare i film: propositi”, in G. Bursi, S. Venturini, Quel che brucia (non) ritorna. What Burns (never) returns. Lost and Found Films, Campanotto, Udine, 2009, p.29): «Se riportiamo un film su DVD o su altro supporto, possiamo riprodurne l’assetto figurativo ma non i valori fotografici (definizione, contrasto, densità, grana: la texture dell’immagine); non c’è resa del colore, o solo vaga; difforme sarà il formato del fotogramma (aspect ratio), le proporzioni del mascherino di stampa, la stabilità dell’immagine ecc. Insomma: il riporto di un’opera non è che rappresentazione dell’opera (di una sua dimensione). Ovvero: riduzione dell’opera a testo (figurativo). Il quale, in quanto testo, è chiamato a testimoniarla (come si dice: “citare un testimone”). Anzi, sotto tale rispetto, dell’opera, meno che rappresentazione è promemoria (memento, memorandum, pense-bête)».

Il fascino di questi promemoria visivi, l’euforica perversione che ne deriva, è dato anche dal fatto che sono trasferimenti di materiali migrati da un formato a un altro. Sono film proiettati, rifilmati in video e trasferiti su file digitali (Frame – City Slivers). Sono film proiettati, rifilmati in pellicola, trasferiti in video e poi in digitale (nostalgia). In quest’ultimo potete sentire il rumore del proiettore intento a macinare i fotogrammi. Nel file di Frame mancano pressappoco i primi sei minuti del film, e un effetto quasi stroboscopico lo avvolge (assente nell’originale). Potete notare sul fondo del frame digitale, del “quadro”, la striscia del nastro VHS che scorre orizzontalmente. A volte il quadro salta, la definizione pure, esibendo quelle specie di pieghe tipiche dei VHS in cattive condizioni.
Date queste condizioni, l’azione di misurare i centimetri dello schermo in Frame suona piuttosto comico. Una specie di umorismo fa capolino, e accompagna la visione.

Prima di concludere, un ricordo di Goldsmith sembra riportarci paradossalmente a Casanova e a Schefer. Anche se è di Andy Warhol che Goldsmith parla. «Andy Warhol diceva che l’azione dei suoi film statici, come Empire (1964) e Sleep (1963), non si trovava sullo schermo ma nel cinema. Sosteneva che, poiché sullo schermo accadeva così poco, la vera azione avveniva tra il pubblico: il viavai, il parlare, l’addormentarsi, i combattimenti, l’uso di droghe e talvolta il sesso. Per lui il cinema era uno spazio performativo, con le immagini sullo schermo come sollecito o sfondo sul quale queste performance potevano svolgersi, trasformando lo spazio normalmente passivo del cinema in uno spazio relazionale.

Lampert ritiene che: «Il cinema non è un medium. È un’esperienza, un’esperienza collettiva, con le persone. Sentendole respirare accanto a me, condivido quell’esperienza, sto vivendo il cinema. L’esperienza cinematografica è definita da un proiettore dietro di te che proietta sopra le nostre teste, su una superficie posta di fronte a te. Di solito la stanza è buia, le pareti sono nere e lo schermo è bianco. Ma la stanza stessa è composta da spettatori e stiamo tutti vivendo le cose contemporaneamente. Penso che sia la visione simultanea a definire il cinema perché tutti potremmo guardare lo stesso identico contenuto sui nostri telefoni, a casa o altrove, parlarne il giorno dopo vicino al distributore dell’acqua, ma il cinema è l’esperienza di tutti noi che guardiamo contemporaneamente nello stesso spazio. Ciò è particolarmente vero se c’è un errore. Per me il cinema è vivo quando c’è un problema di messa a fuoco, quando il suono si interrompe, quando una giunta si rompe e dobbiamo aspettare insieme cinque minuti al buio mentre il proiettore riprende a funzionare. Non voglio un’esperienza fluida. Questo è il cinema”».

Credo che abbia ragione.