Sabato 23 aprile 2022
Spazio Contemporanea
screenings / 16mm
ARTE DELLA PROIEZIONE
a cura di Rinaldo Censi
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti
Con i film:
Projection Instructions, Morgan Fisher, USA, 1976, 16mm, 4min.
Razor Blades, Paul Sharits, USA, 1965-68, 16mm double screen, 25min.
Declarative Mode, Paul Sharits, USA, 1976, 16mm double screen, 40min.
«Ho sentito questa espressione ieri, “colpire lo schermo”, è fantastico, in inglese. Colpire lo schermo: questo è davvero ciò che fanno i fotogrammi. I fotogrammi proiettati colpiscono lo schermo. Ad esempio, quando si lascia funzionare il proiettore a vuoto, si sente il ritmo. C’è un ritmo fondamentale nel cinema. Penso che pochissimi cineasti – se mai ce n’è stato uno, non so – siano partiti da questa sensazione del ritmo di base, questi ventiquattro impulsi sullo schermo, per fare film – brrhumm – è un ritmo assai metrico».
«Il cinema non è movimento. Questa è la prima cosa. Il cinema non è movimento. Il cinema è una proiezione di immagini fisse – il che significa immagini che non si muovono – a un ritmo molto veloce. E puoi dare l’illusione del movimento, ovviamente, ma questo è un caso speciale e il film è stato originariamente inventato per questo caso speciale. Ma, come spesso accade, le persone inventano qualcosa e, poi, creano qualcosa di completamente diverso. Hanno creato qualcos’altro. Il cinema non è movimento. Può dare l’illusione del movimento. Il cinema è la rapida proiezione di impulsi luminosi. Questi impulsi luminosi possono essere modellati quando metti la pellicola davanti alla lampada: sullo schermo puoi modellarla. Sto parlando ora di film muto. Hai la possibilità di dare alla luce una dimensione nel tempo. Questa è la prima volta da quando esiste l’umanità che puoi davvero farlo».
(Peter Kubelka, cfr. Interview with Peter Kubelka, by Jonas Mekas, Film Culture, n. 44, Spring, 1967)
«I heard this expression yesterday, “to hit the screen,” that’s fantastic, in English. Hit the screen-this is really what the frames do. The projected frames hit the screen. For example, when you let the pro- jector run empty, you hear the rhythm. There is a basic rhythm in cinema. I think very few film-makers-if there ever was one, I don’t know-have departed making films from this feeling of the basic rhythm, these twenty-four impulses on the screen – brrhumm – it’s a very metric rhythm».
«Cinema is not movement. This is the first thing. Cinema is not movement. Cinema is a projection of stills – which means images which do not move – in a very quick rhythm. And you can give the illusion of movement, of course, but this is a special case, and the film was invented originally for this special case. But, as often happens, people invent something, and, then, they create quite a different thing. They have created something else. Cinema is not movement. It can give the illusion of movement. Cinema is the quick projection of light impulses. These light impulses can be shaped when you put the film before the lamp – on the screen you can shape it. I am talking now about silent film. You have the possibility to give light a dimension in time. This is the first time since mankind exists that you can really do that».
(Peter Kubelka, cfr. Interview with Peter Kubelka, by Jonas Mekas, Film Culture, n. 44, Spring, 1967)
(OVERTURE: «Tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono porci». – Antonin Artaud)
«Nel mio cinema i flash di luce proiettata avviano la trasmissione neurale tanto sono analoghi a quei sistemi di trasmissione e la retina umana è uno “schermo cinematografico” tanto quanto lo schermo vero e proprio. A rischio di sembrare immodesto, riesaminando i meccanismi di base del cinema e rendendo esplicitamente concreti questi fondamenti, sto lavorando ad una concezione interamente nuova del cinema. Tradizionalmente è inteso come “film astratto”, dato che si tratta di estensioni di principi pittorici ed estetici legati alla pittura, o meglio, sono semplici dimostrazioni di questioni ottiche, altrettanto cinematici di qualunque film drammatico-narrativo che spreme la letteratura e il teatro su uno schermo bidimensionale. Voglio abbandonare l’imitazione e l’illusione per entrare direttamente nel dramma superiore, quello di: celluloide, strisce di film bidimensionali; singoli fotogrammi rettangolari; la natura di perforazioni e emulsioni; accorgimenti legati alla proiezione; la tridimensionalità del raggio luminoso; illuminazione ambientale; la superficie bidimensionale e riflettente dello schermo; lo schermo retinico; nervo ottico e dati psico-fisici collettivi della coscienza individuale. In questo dramma cinematico, la luce è energia così come uno strumento per la rappresentazione di oggetti non-filmici; la luce, come energia, è liberata in modo da creare i suoi propri oggetti, forme, strutture (textures). Dati l’inerzia retinica e l’effetto flicker ottenuto grazie all’otturatore, attraverso il meccanismo di proiezione è possibile generare forme virtuali, un vero movimento (più che illustrarlo), costruire un vero spazio cromatico (piuttosto che rappresentarlo), ed essere coinvolto in un tempo effettivo (presenza immediata)».
(Paul Sharits, Notes on Films/1966-68, Film Culture, n. 47, Summer 1969)
(OVERTURE: «All writing is pigshit. People who leave the obscure and try to define whatever it is that goes on in their heads, are pigs». – Antonin Artaud)
In my cinema flashes of projected light initiate neural transmission as much as they are analogues of such transmission systems and that the human retina is as much a “movie screen” as is the screen proper. At the risk of sounding immodest, by re-examining the basic mechanisms of motion pictures and by making these fundamentals explicitly concrete, I am working toward a completely new conception of cinema. Traditionally, “abstract films,” because they are extensions of the aesthetics and pictorial principles of painting or are simply demonstrations of optics, are no more cinematic than narrative-dramatic films which squeeze literature and theatre onto a two-dimensional screen. I wish to abandon imitation and illusion and enter directly into the higher drama of: celluloid, two-dimensional strips; individual rectangular frames; the nature of sprockets and emulsion; projector operations; the three-dimensional light beam; environmental illumination; the two-dimensional reflective screen surface; the retinal screen; optic nerve and individual psycho-physical subjectivities and consciousness. In this cinematic drama, light is energy rather than a tool for the representation of non-filmic objects, shapes and textures. Given the fact of retinal inertia and the flickering shutter mechanism of film projection, one may generate virtual forms, create actual motion (rather than illustrate it), build actual color-space (rather than picture it), and be involved in actual time (immediate presence).
(Paul Sharits, Notes on Films/1966-68, Film Culture, n. 47, Summer, 1969)
PROJECTION INSTRUCTIONS
Morgan Fisher, 1976, 16mm, 4 min.
«Il film è composto da una serie di testi che appaiono simultaneamente sullo schermo e sulla colonna sonora. Questo testo scritto e parlato contiene una serie di istruzioni per il proiezionista su come far funzionare la sua macchina. Questi interventi drammatici che deve eseguire, rendono visibile il funzionamento della macchina, che egli manovra. Il pubblico infatti non vede il film, ma presta attenzione alle interazioni tra lo schermo (la partitura) e il proiezionista (il performer). Il film è una performance, in cui la partitura è visibile, mentre l’esecutore rimane nascosto».
«Ci accorgiamo del proiezionista, come ci accorgiamo della proiezione stessa, solo quando avviene un problema tecnico. Siamo impazienti che il proiezionista lo aggiusti, così da poter riprendere ad essere ammaliati dall’immagine. Projection Instructions consiste solo in una successione di didascalie che vengono lette simultaneamente dal narratore. Questo testo, scritto e parlato, è un insieme di istruzioni per il proiezionista per manipolare i comandi del proiettore. In circostanze normali si tratterebbe di una grave interruzione del film, ma in questo caso solo così facendo il proiezionista proietta correttamente il film. La proiezione “normale” sarebbe una performance fallita, come il pubblico può dedurre dalla nota indirizzata al proiezionista che apre il film. La nota informa il proiezionista che per proiettare correttamente il film lui/lei deve seguire le istruzioni di cui il film è composto. Il film richiede al proiezionista di guardare il film mentre lo proietta, cosa che normalmente lui/lei fa raramente, e di rispondere continuamente alle sue richieste. Gli atti di disturbo che il proiezionista deve commettere richiamano l’attenzione sulla macchina che lui/lei controlla, così come richiamano l’attenzione anche sul proiezionista. Ciò che il pubblico vede e sente è l’interazione tra l’immagine e il suono del film, che insieme costituiscono una partitura, e il proiezionista che la esegue. Il film è un’opera performativa in cui la partitura è visibile mentre l’esecutore non lo è. E la partitura, a differenza di altre, cambia in relazione all’esecuzione che ne fa l’interprete.
Projection Instructions ricorda i film ordinari in quanto ha una stella; quella stella è il proiezionista».
(Morgan Fisher)
«The film consists of a number of texts, which appear on the screen and on the soundtrack simultaneously. This written and spoken text contains a series of instructions for the projectionist on how to operate his machine. These dramatic interventions he has to perform, make visible how the machine works, which he controls. In fact, the audience does not see the film, but pays attention to the interactions between the screen (the score) and the projectionist (the performer). The film is a performance, in which the score is visible, while the performer remains hidden».
«We notice the projectionist, as we notice projection itself, only when there is a technical problem. We are impatient with the projectionist to fix it, so we can resume being enthralled by the image. Projection Instructions consists only of a succession of written cards that are simultaneously read by the narrator. This text, written and spoken, is a set of instructions to the projectionist to manipulate the controls of the projector. Under ordinary circumstances this would be an egregious disruption of the film, but in this case only by doing so is the projectionist projecting the film correctly. ‘Normal’ projection would be a failed performance, as the audience can gather from the note addressed to the projectionist that begins the film. The note informs the projectionist that to project the film correctly he or she must follow the instructions that the film consists of. The film requires the projectionist to watch the film while projecting it, which ordinarily he or she seldom does, and to respond continuously to its demands. The disruptive acts that the projectionist must commit call attention to the machine that he or she controls, just as they also call attention to the projectionist. What the audience sees and hears is the interaction between the film’s image and sound, which together are a score, and the projectionist who performs it. The film is a performance work in which the score is visible while the performer is not. And the score, unlike most, changes in response to the performer’s performance of it.
Projection Instructions resembles ordinary movies in that it has a star; that star is the projectionist».
(Morgan Fisher)
RAZOR BLADES
Paul Sharits, 1965-68, 16mm, 25 min.
Un film in split-screen composto da colori che scintillano rapidamente, forme, motivi, lettere, parole e immagini. (IMDb)
A split-screen film consisting of rapidly flashing colors, shapes, patterns, letters, words, and images. (IMDb)
«Un magnifico assalto dei sensi».
«Il film è fatto per essere proiettato da due bobine, le immagini appaiono una accanto all’altra; gli altoparlanti devono essere posizionati per creare un ambiente sonoro stereo. Razor Blades inizia come un mandala; il mandala è visivamente tagliato a fette (come se si fosse passati attraverso il centro del mandala, “attraverso uno specchio” in un regno di pura immaginazione -coscienza sezionata) e man mano che il “tema” del film si espande diventa sempre meno “centrato”, sempre meno razionale. Dopo la metà del film, i temi-immagini diventano di nuovo più coerenti, iniziano a “ricentrarsi”; alla fine del film il mandala viene riformato e il senso generale del film è che si è verificato un grande ciclo. Poiché Razor Blades finisce come è iniziato, viene suggerito un loop infinito – il tempo metrico viene distrutto. A parte il materiale iniziale e finale, che è lineare, il film è composto [da] quattordici loop che, sfalsati, giocano contro (“si affettano” avanti e indietro, si compenetrano) l’un l’altro. Ogni loop, in sé, è fatto in modo che uno possa tracciare variazioni di velocità, ritmo e riconoscimento dell’immagine nella propria coscienza; quando questi loop sono proiettati fianco a fianco, in modo che entrambe le immagini siano viste come un’immagine più grande, a causa delle loro dissomiglianze nella lunghezza del ciclo, questa variabilità della coscienza è geometricamente aumentata; poiché sullo schermo ci sono coppie di immagini costantemente diverse, la caratteristica ripetitiva dei loop viene trascesa. Fin da Ray Gun Virus ho tentato di sottrarre alle mie immagini ogni significato potenzialmente discorsivo – simbolico – drammatico-narrativo in modo che ogni film possa creare il suo particolare “significato” filmico, in modo che ogni film sia un sistema vivente in sé. Questi “significati” possono essere parzialmente associativi poiché vi compaiono immagini riconoscibili; tuttavia, queste immagini sono intese per essere principalmente plastiche, persino fisiologiche. Come artista, un “tema” che mi ossessiona quotidianamente e che ricorre nella maggior parte dei miei lavori cinematografici è quello dell’unità cosmica e dinamica degli opposti, gli ordini del disordine, il senso di circolarità costante… il paradosso come dato fondamentale. In questo lavoro non c’è solo un senso formale del ciclo ma c’è anche un senso del Ciclo Vitale: attività mondana squarciata, in grado di rivelare le dinamiche positivo-negative della sessualità, nascita, crescita, scontri dei livelli di realtà, orrore, confusione, assurdità, suicidio; poi, “l’altro lato” delle visioni della vita cariche di morte – il rasoio usato per tagliare un polso diventa Medicina (il bisturi che dona vita) … la fine diventa inizio».
(Paul Sharits, Razor Blades / From an Application Grant, in Notes on Films/1966-68, Film Culture, n. 47, Summer, 1969)
«A beautiful assault of the senses».
«The film is made to be projected from two reels, the images appearing side by side; speakers are to be placed to create a stereo sound environment. Razor Blades begins as a mandala; the mandala is visually sliced open (as if one had passed through the center of the mandala, “through a looking glass” into a realm of pure imagination – consciousness dissected (and as the film’s “theme” gradually expands it becomes less and less rational. After the midway point in the film, the themes-images become more coherent again, begin to “re-center”; at the end of the film the mandala is reformed and the overall sense of the film is that a large cycle has occurred. Since Razor Blades ends as it began, an infinite loop is suggested – metric time is destroyed. Apart from the beginning and ending footage, which is linear, the film is made up of 14 loops which, staggered, play against (“slice” back and forth, interpenetrate) each other. Each loop, in itself, is made so that one can chart variations in one’s own consciousness of speed, rhythm and image recognition; when these loops are projected side by side, so that both images are seen as one large image, because of their differences in cycle length, this variability of consciousness is geometrically increased; since there are constantly different pairs of images on the screen, the repetitive characteristic of loops is transcended. Since Ray Gun Virus I have attempted to subtract from my imagery all potentially discursive – symbolic – dramatic-narrative meaning so that each film might create its own particular filmic “meaning”, so that each film will be a living system in itself. These “meanings” may be partially associative since recognizable images appear; still, these images are intended to be primarily plastic, even physiological. A “theme” which preoccupies my everyday being and that which recurs in most of my film work is that of the cosmic, dynamic unity of opposites, the orders of disorder, the sense of constant circularity … paradox as fundamental fact. In this work there is not only a formal sense of cycle but there is also a sense of the Life Cycle: mundane activity slashed open, revealing the positive-negative dynamics of sexuality, birth, growth, clashes at levels of reality, horror, confusion, absurdity, suicide; then, the “other side” of death-filled visions of life – the razor used to slash a wrist becomes Medicine (the life-giving scalpel) … ends becoming beginnings».
(Paul Sharits, Razor Blades / From an Application Grant, in Notes on Films/1966-68, Film Culture, n. 47, Summer, 1969))
DECLARATIVE MODE
Paul Sharits, 1976-77, 16mm, 38 min.
«Questo film è meno “strutturale” che “narrativo”. Ci sentiamo come se fossimo in un viaggio, un viaggio di cui non possiamo mai sapere/prevedere cosa accadrà dopo. È accattivante, come un romanzo pieno di colpi di scena.»
(Paul Sharits)
«This film, rather than being “structural”, is “narrative like”. We feel as if we are on some sort of journey, where we never know/predict what is to ‘happen’ next. It is engaging, like a novel full of surprises.»
(Paul Sharits)
«Amo l’esperienza del colore puro; tuttavia, trovo che se guardo un colore che è molto definito, la mia mente riconosce quel colore e mi impedisce di perdermi totalmente in esso; quindi tendo a preferire i colori che stanno a lato, che sono un po’ meno definiti. Mi piacciono particolarmente alcuni passaggi stratificati nei dipinti di Monet, perché quando guardi queste aree diventi consapevole, in un periodo di tempo, di una moltitudine di colori che interagiscono e non ti fissi sull’uno o sull’altro. Diventa quasi come gustare un colore; è una cosa molto fisica. Un blu puro è piacevole, ma ha una tale definizione che, per me, non è così sensualmente coinvolgente. Uno dei motivi che mi hanno spinto a lavorare con lo sfarfallìo del colore è legato al fatto che volevo creare colori indefiniti, alternare, diciamo, tre colori, in modo che mentre stai guardando questo effetto scintillante, la mente non può fissarli; non possiamo dire se è giallo o arancione o viola; è un tipo fusione costantemente impossibile. Non proprio una fusione, si capisce che non è una fusione, ma è troppo veloce perché se ne possano individuare i toni. Ci entri dentro e lo assapori, come se stessi cercando di gustarlo. È quasi come provare a toccare qualcosa per sentire che effetto fa. È un coinvolgimento estremamente sensuale; in parte, è qualcosa che è in di me, non so bene perché; e penso che ciò si sia espanso sotto l’effetto di alcune droghe che ho preso negli anni ’60, LSD, psilocibina, peyote e così via. Mi hanno rivelato che la mia percezione poteva essere molto più complessa di quanto pensassi, e che guardare un singolo colore, in quello stato, poteva essere un’esperienza multidimensionale.»
(Paul Sharits, cfr. Interview with Paul Sharits by Jean-Claude Lebensztejn, recorded in Paris, June 12 and 14, 1983, edited in Jean-Claude Lebensztejn, Écrits sur l’art récent. Brice Marden, Malcolm Morley, Paul Sharits, Éditions Aldines, Paris, 1995)
«I love the experience of pure color; however, I find that if I look at one color that is very definite, my mind registers a recognition of this color and prevents me from becoming totally lost within it; so I tend to like colors that are off-colors, that are a bit less definite. I particularly like some layered passages in Monet’s paintings, because as you look at these areas you become aware, over a period of time, of a multitude of colors interacting, and you don’t fix on one or the other. It becomes almost like tasting the color; it’s a very physical thing. A pure flat blue is enjoyable, but it has such a definiteness to it that, to me, it is not as sensually involving. One of the reasons that I worked with color flicker was to create colors that were indefinite. I will alternate, let’s say, three different colors, so that while you’re watching this shimmering effect, your mind cannot fix and say, that’s either yellow or orange or purple, but that it’s an impossible constant kind of fusion; not quite a fusion, you understand that it’s not a fusion, but it’s too quick fo you to individualize the tones. You move into it and relish it, like you are trying to taste it; it’s almost like trying to touch something to feel what it feels like. It’s an extremely sensual involvement, and part of that, I think, is just something that’s whitin me for whatever reason; also, I think it was enhanced by some drugs that I took in the 1960′, LSD and psilocybin and peyote and so forth, that revealed to me that my perception could be much more complex than I had thought it was, and that looking at a single color, in that state, was a multi-dimensional experience.»
(Paul Sharits, cfr. Interview with Paul Sharits by Jean-Claude Lebensztejn, recorded in Paris, June 12 and 14, 1983, edited in Jean-Claude Lebensztejn, Écrits sur l’art récent. Brice Marden, Malcolm Morley, Paul Sharits, Éditions Aldines, Paris, 1995)
DICHIARAZIONE RIGUARDANTE; DECLARATIVE MODE
«Nel 1776, Thomas Jefferson incluse nella sua bozza della Dichiarazione di Indipendenza una denuncia della schiavitù. Tuttavia, questo passaggio visionario fu cancellato dalla bozza finale del documento dal Congresso. Questo film tenta di celebrare lo spirito dell’irremovibile dichiarazione di Jefferson di libertà umana per tutte le razze con ritmi di puro colore.»
(Paul Sharits, Statement regarding; Declarative Mode)